“I FIORI DEL MALE” DI C. BAUDELAIRE: LA POESIA DELLO SPIRITO DI RICERCA

  • Autore dell'articolo: di T. Catalano
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I Fiori del Male – pubblicati nella prima edizione nel 1857 – è una raccolta di poesie dell’autore francese Charles Baudelaire (1821-1867), divisa in cinque sezioni: Spleen e ideale, Quadri di Parigi, Il vino, I Fiori del Male, La morte. Qual è il legame del libro col Buddismo di Nichiren?

UN’OPERA SCANDALOSA E INNOVATIVA, CON UN TITOLO EMBLEMATICO

Quando I Fiori del Male uscirono nel 1857, a causa dei temi scabrosi affrontati, furono subito ritirati dalla censura, perché ritenuti immorali. Baudelaire fu costretto a eliminare sei liriche e a pagare un’ingente multa. Ma non si fece scoraggiare: nel 1861, con rinnovata determinazione, pubblicò una seconda edizione, arricchita di ben 35 nuove poesie, contro le sei soppresse. Come scrive D. Ikeda:

“Una vita dedicata a una missione incontra sicuramente una serie di dolorose difficoltà, ma se il cuore rimane saldo e la fede non si fa sviare, non c’è difficoltà che non possa essere superata. […] Perciò più lottiamo, più potere tiriamo fuori. La fede è il mezzo per estrarre questo tesoro nascosto.”

(D. Ikeda, MDG, I, 254)

I Fiori del Male si configurano come un viaggio immaginario compiuto dal poeta nelle profondità dell’Inferno: Inferno che non corrisponde al mondo ultraterreno, come in Dante, ma al mondo reale, a quello contemporaneo, che Baudelaire – l’archetipo del poeta maledetto – vede ossessionato dal falso mito del progresso tecnologico. Per il poeta, la modernità è caratterizzata dalla perdita di valori ed è fortemente abbrutita dalla sterile sete di guadagno, in senso capitalista.

Il titolo I Fiori del Male ha una grande importanza: come i fiori nascono dalla terra fangosa, così le poesie di Baudelaire nascono dal male del presente. Nello specifico, l’immagine del titolo allude alla precisa idea di estrarre la bellezza dal male, dall’oscurità più profonda dell’esistenza umana (alla lettera la traduzione di Les Fleurs du Mal sarebbe “I Fiori dal Male”), come colse bene Fabrizio De André, quando scrisse la canzone Via del Campo (dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fior). A un’attenta analisi, il titolo dell’opera presenta una forte analogia con l’immagine del fiore di loto, evocata nel Sutra del Loto, l’insegnamento definitivo del Budda storico Siddharta o Shakyamuni che stabilisce che tutti gli esseri viventi sono Budda e che tutte le persone possono conseguire la Buddità nella loro forma presente. L’immagine del fiore è inoltre presente nella parola renge (loto) di Nam-myoho-renge-kyo. Ma perché il loto? Esso genera il fiore e il frutto insieme (immagine che richiama la Legge di causa ed effetto e l’idea di poter conseguire la Buddità nella propria esistenza presente): soprattutto è un fiore che nasce dalla melma, così come gli esseri umani vengono al mondo in mezzo a difficoltà e sofferenze. Come scrive Nichiren Daishonin:

È come il seme del loto che contiene al tempo stesso il fiore il frutto. Anche il Budda dimora nei nostri cuori, così come dentro la pietra focaia esiste il fuoco e dentro le gemme esiste il valore. […] Tu potresti chiederti come il Budda possa risiedere dentro di noi. […] Il puro fiore di loto sboccia dalla melma, il profumato sandalo cresce dalla terra, […] la luna si alza da dietro le montagne e le rischiara.”

(RSND, 1, 1008).

Il titolo I Fiori del Male è ricollegabile, infine, con il principio buddista di trasformare il veleno in medicina, ovvero di utilizzare le sofferenze, i desideri, gli ostacoli e le avversità, per trasformare e purificare le nostre vite, affrontandole attraverso la fede e la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo. È in questo modo che trasformiamo le difficoltà in occasione di miglioramento di noi stessi (la rivoluzione umana) e creiamo valore. A questo proposito D. Ikeda scrive:

“Non dovremmo mai decidere che qualcosa è impossibile, dando per scontato che non riusciremo mai. Nella nostra vita è intrinsecamente contenuto il potere dell’intero universo e la Legge mistica lo fa emergere. Decidete con forza: “Io posso farlo!”. Allora la determinazione delle vostre preghiere e delle vostre azioni spezzerà il muro dei limiti che voi stessi vi imponete.”

(D. Ikeda, Una rivoluzione della leadership, 13).

L’INTERCONNESSIONE TRA TUTTI GLI ESSERI VIVENTI  E IL POTERE DELLA POESIA

Nella celebre poesia Corrispondenze il poeta scrive: La Natura è un tempio con vive colonne / da cui fuoriescono a volte confuse parole; / vi attraversa l’uomo selve di simboli / che lo guardano in maniera familiare. Nell’ottica di Baudelaire, la realtà della vita è tempestata di simboli, che gli esseri umani possono scoprire andando più in profondità, cioè, ricercando una via più spirituale, mistica, d’intendere l’esistenza. È proprio qui, d’altronde, che per l’autore nasce la magia della poesia. Il punto fondamentale è che per Baudelaire tutte le cose, tutte le vite sono intimamente interconnesse fra di loro, così come insegna il Buddismo di Nichiren. Un esempio celebre per spiegare questo concetto è quello della Rete di Indra. Nella mitologia induista, si parla di un dio di nome Indra che tesse una rete infinita, con gioielli splendenti che si riflettono l’un l’altro, creando giochi di luce. È questa un’allegoria per mostrare come le vite di tutti gli esseri umani siano tra di loro profondamente interconnesse, anche se apparentemente le persone non lo vedono. Come scrive Nichiren: Noi persone comuni non possiamo vedere le nostre ciglia che sono vicine né i cieli che sono lontani. Ugualmente non capiamo che il Budda possa risiedere nel nostro cuore” (RSND, 1, 1008). In ultima analisi, la lirica di Baudelaire ci invita a ricercare i collegamenti profondi tra le cose, e ad approfondire il nostro spirito di ricerca, che per il Buddismo significa rafforzare la nostra conoscenza del Buddismo e la nostra fede. D. Ikeda scrive a questo proposito: Spirito di ricerca e pratica risoluta sono le chiavi per la crescita e la vittoria; sono fonte di ispirazione, pace della mente e sviluppo” (D. Ikeda, Una rivoluzione della leadership, 59). 

Fin dall’Antichità, gli esseri umani si sono serviti della poesia per esprimere una visione più profonda dell’esistenza, per veicolare sentimenti, valori, ideali, fragilità interiori. Come scrive D. Ikeda:

“La poesia è davvero una fonte di creatività infinita, che offre potenti spunti per riflettere sulla realtà del nostro mondo e ci avvicina alla vera natura dell’umanità. È sulla base di questa convinzione che cito versi di grandi poeti di tutto il mondo e di tutte le epoche ogni volta che parlo con i giovani del modo migliore di vivere. […] L’uso della poesia per risvegliare la coscienza umana e riesaminare il significato e lo scopo della nostra vita è fondamentale per realizzare una trasformazione interiore degli esseri umani”

(S. Rees & D. Ikeda, Pace, giustizia e poesia, 137-138). 

Nella poesia L’Albatros Baudelaire scrive: “Tante volte l’equipaggio / per divertimento, cattura dei vasti uccelli di mare, / gli albatri, sereni compagni di viaggio / […] Com’è goffo e fiacco, quel viaggiatore alato! / Com’è ridicolo e brutto, lui prima così bello! / E uno gli stuzzica il becco con il cannello della pipa e / un altro fa lo zoppo per imitare lo sciancato che volava! / Il Poeta è simile al principe delle nubi che, / abituato alla tempesta, se n’infischia dell’arciere; / sulla terra esiliato, accolto a fischiate, / le sue ali gigantesche gli impediscono di camminare”. Lo scrittore francese paragona la propria condizione a quella dell’albatros: come quest’ultimo è il signore dei cieli marini, libero di volare dove desidera, ma se catturato dai marinai, è deriso per la propria goffaggine, trovandosi fuori posto in non contesto che non è il suo, così il poeta – che ricerca una visione profonda e spirituale della vita – è incompreso, relegato e rigettato dalla società contemporanea, interessata solo alla crescita economica e materiale. Se per Baudelaire la poesia diviene l’unica via, nella desolazione del presente, per un’elevazione spirituale e ideale dell’umanità, la figura dell’Albatros-poeta ricorda i praticanti del Buddismo di Nichiren: quest’ultimi, avendo formulato il voto di aiutare tutte le persone a diventare felici, sono spesso criticati e ostacolati, fraintesi, nonostante le loro nobili e sincere intenzioni di sostenere e aiutare gli altri, ma non per questo indietreggiano o si fanno scoraggiare. 

Ma qual è, in conclusione, il punto di vista di D. Ikeda sulla poesia? Egli scrive: “Le poesie bellissime non sono un insieme di belle parole o di belle frasi. Credo che le belle parole nascano da uno spirito che lotta per l’umanità attraverso le vicissitudini della vita. La poesia è un tentativo di tradurre in parole le emozioni che proviamo nella vita quotidiana. Così è per la letteratura. Tutta la grande letteratura, antica e moderna, è un ponte che collega un essere umano a un altro. La qualità della nostra vita è determinata da quanti ponti riusciamo ad attraversare” (D. Ikeda, I protagonisti del XXI secolo, 218)