Lo scorso 7 maggio 2024 si è celebrato il bicentenario della Nona Sinfonia di Beethoven, chiamata anche Inno alla Gioia o Sinfonia Corale. L’opera è stata definita da D. Ikeda “la musica dello spirito umano”.
UNA MUSICA CHE CI INCORAGGIA A SFIDARE NOI STESSI
Daisaku Ikeda commenta così la figura di L. van Beethoven (1770-1827): “La sofferenza: questo è ciò che è scolpito nei lineamenti di Beethoven e appare nei suoi ritratti. Ma le nubi del tormento non riuscirono a oscurare la brillantezza del suo spirito. Indifferente agli assalti della critica, al compiacimento, alla malattia e ai problemi economici, si impegnò a trasformare questa sofferenza in gioia” (Daisaku Ikeda in Europa, p.92). La musica di Beethoven è pervasa da una continua tensione, da una progressiva spinta in avanti che caratterizza la volontà dell’autore di superare i limiti formali della musica e di sprigionare tutto il suo infinito potenziale. Per questo è una musica del passato estremamente proiettata verso il futuro. Questa carica innovativa della sua arte deriva dalla profonda conoscenza che l’autore aveva proprio della musica, e non dal puro desiderio di stupire o sembrare diverso. Mentre prima di Beethoven la musica doveva solo dilettare il pubblico offrendo un momento di svago, il compositore si sforzò di realizzare con la sua arte qualcosa di inimmaginabile: promuovere con le sue opere i nuovi valori umanitari e sociali dell’Illuminismo europeo (la solidarietà, l’amicizia, l’uguaglianza di tutte le persone, la libertà, la pace). Le opere di Beethoven, in ultima analisi, sono indubbiamente difficili sia per l’ascoltatore sia per l’esecutore: costringono ad andare oltre i nostri limiti, oltre le conoscenze consolidate, oltre la pura immediatezza, per immaginare nuovi orizzonti che nascono dalla nostra umanità più profonda.
La Nona sinfonia di Beethoven, chiamata anche Inno alla Gioia, è un capolavoro della storia della musica occidentale: è un’opera straordinaria per la profondità del messaggio etico, umano e spirituale che contiene e per le sue incredibili innovazioni dal punto di vista artistico. Nei momenti più difficili della sua vita, D. Ikeda ascoltava sempre il suo disco con la registrazione della Sinfonia Corale, in cui sentiva “il trionfo dello spirito umano che Beethoven stesso aveva messo in mostra superando le difficoltà che lo schiacciavano” (ibidem, p. 91): la sinfonia, insomma, come racconta Ikeda stesso, “gli accarezzava il cuore e lo incoraggiava” (ibidem, p. 91).
Nel Settecento, la sinfonia era stata sviluppata soprattutto da Haydn (maestro di Beethoven) e da Mozart come genere musicale. A inizio Ottocento, Beethoven aveva contribuito alla sua evoluzione con opere come la Sinfonia Eroica, del Destino, la Pastorale. Tuttavia, quando si apprestò a scrivere la Nona, volle ulteriormente superarsi come compositore. Beethoven immaginò infatti una sinfonia articolata in tre tempi solo strumentali, come da tradizione, e un quarto dove sarebbero entrati il coro e i cantanti solisti per intonare delle strofe dell’Ode alla Gioia di Schiller. Invece di andare sul sicuro, Beethoven scelse perciò la via della sfida con se stesso, la strada della conquista di nuovi orizzonti artistici. Come scrive D. Ikeda:
“Il processo creativo è una lotta contro la tendenza insita nelle nostre vita a voler scendere a facili compromessi. Solo vincendo su questa tendenza, sfidandosi e impegnandosi fino all’ultimo, continuando a ingegnarsi, è possibile aprire la strada a un nuovo cammino”.
(NRU, 30, 487)
La Nona fu presentata al pubblico la sera del 7 maggio 1824, diretta dallo stesso autore, che non compariva sul podio da circa dodici anni. La storia di quel concerto merita davvero di essere raccontata. Durante le prove, il carattere impossibile del compositore, sempre burbero e irascibile, la sua testarda ostinazione a voler dirigere nonostante la sordità completa, l’estrema difficoltà tecnica dell’opera dettero letteralmente del filo da torcere agli orchestrali e ai cantanti. A questi ultimi, in particolare, la partitura concepita dal compositore sembrava tanto ardita e complessa da risultare ineseguibile. Nonostante tutti gli ostacoli e le sue stesse sfuriate, Beethoven non si dette per vinto. Si mantenne saldo nella volontà di dirigere egli stesso la sua opera: spronò gli artisti a non perdersi d’animo, ad andare oltre i propri limiti. Come scrive Nichiren Daishonin: “In una battaglia il generale è l’anima per i soldati e se il generale si perde di coraggio, i soldati diventeranno codardi” (RSND, I, 545).
Durante il concerto, primo movimento colpì subito il pubblico, ma al secondo, a causa della sordità che impediva a Beethoven di seguire bene il tempo, l’orchestra dovette bruscamente interrompersi e riprendere da capo. Come riportano le fonti (cfr. A. Colombani, Le nove sinfonie di Beethoven, 1947, pp. 325-327), a quel punto Beethoven trasalì e per un momento, solo per un momento, fu sul punto di mollare tutto: ma alla fine rimase determinato nell’andare fino in fondo, senza farsi influenzare dall’ostacolo incorso. Il secondo movimento piacque così tanto che il pubblico ne chiese subito il bis. Beethoven aveva egregiamente superato la difficoltà intercorsa, attraverso la sua ferrea disciplina interiore e la sua incrollabile determinazione nonostante la paura iniziale. Poi il terzo e il quarto tempo col coro. A fine esecuzione, il pubblico, in estasi per la bellezza della musica, la profondità del suo contenuto ideale, scoppiò in una clamorosa ovazione. I cappelli volavano in aria, la gente applaudiva. Tuttavia, Beethoven non ne aveva alcuna percezione, perché non sentiva niente. Era ritornato ad immergersi nella sua nera solitudine. Dopo essersene resa conto, senza temere la sua possibile reazione contraria, con un atto pieno di umanità e compassione – proprio come la musica che era appena stata eseguita – una cantante si avvicinò al grande maestro e lo fece voltare, permettendogli di vedere finalmente l’incredibile applauso che il pubblico in tripudio gli stava tributando. L’aspirazione ad una nuova società basata su principi umanitari alla base della sinfonia era stata subito messa in pratica dall’azione coraggiosa ed empatica di una singola persona (in questo caso la cantante), che si era alzata da sola rendendo concreti i valori dell’Inno alla gioia.
UNA MUSICA SUL SENSO DELLA VITA
La Sinfonia Corale è in re minore, come il Concerto n. 20 per pianoforte e orchestra di Mozart. Proprio come quest’ultima opera, recuperando l’idea illuministica del passaggio dall’ombra alla luce, la sinfonia beethoveniana, pur partendo dalla tonalità minore, si lancia alla conquista della tonalità maggiore, ottenuta nel finale: è una metafora del passaggio dalla tenebra al sole, dalla sofferenza alla gioia, dal dolore alla speranza. Con i suoi quattro tempi, l’opera rappresenta più profondamente la vita umana e tutti i sentimenti, le aspirazioni, le sofferenze, i dolori che la caratterizzano.
Il primo movimento è un Allegro ma non troppo, un poco maestoso. Rappresenta la condizione di dolore che sperimentiamo nell’esistenza quando il nostro destino ci sembra inesorabile. Ma da dove nasce proprio questo dolore? Secondo il Buddismo, esso deriva dalle quattro sofferenze universali, che sono rispettivamente la nascita, la malattia, l’invecchiamento e la morte, che condizionano le vite di tutti gli esseri viventi.
Il secondo è uno Scherzo: rappresenta la volontà eroica di opporsi al dolore, di superare le proprie sofferenze con uno spirito combattivo e ottimistico. Tutto il movimento potrebbe essere riassunto con le parole di D. Ikeda:
“Quando ci si impegna nelle avversità si acquisisce grande forza in breve tempo. L’avversità è l’alleato migliore per coloro che nutrono un forte desiderio di migliorarsi”.
(NRU, 23, 179)
Il terzo è un Adagio molto cantabile: l’alto lirismo che lo pervade simboleggia il sentimento di malinconia, di mistero che si prova quando si medita sul significato della vita.
Il quarto movimento si apre col riepilogo dei temi principali che hanno caratterizzato i tre precedenti, come se l’orchestra stesse cercando il significato dell’esistenza e rimanesse insoddisfatta delle risposte. Improvvisamente, si fa spazio un tema popolare: è quello della gioia. La musica suonata dall’orchestra, così come è stata concepita dall’autore, sembra annuire a tale tema, essere felice di aver finalmente trovato il significato dell’esistenza, che era stato ricercato nel corso della sinfonia come con un percorso di indagine, ovviamente tutto musicale. Dopo un suono sinistro, definito da Wagner la fanfara del terrore, arriva un solista che canta dei versi scritti dallo stesso Beethoven, che tradotti in italiano recitano: Amici, non più questi suoni! Piuttosto, altri intoniamone, / più piacevoli e gioiosi. Inizia finalmente la sezione corale. Beethoven vi contamina generi musicali differenti: la musica sinfonica, quella d’opera buffa, quella sacra gregoriana. Introduce inoltre la grancassa e i triangoli, tipici della musica turca, strumenti mai usati in un’orchestra sinfonica. La Nona, mescolando quella europea e quella medio-orientale, diviene una musica multiculturale. L’Ode alla Gioia immagina milioni di uomini che marciano felici insieme verso un futuro fatto di pace, uguaglianza, libertà ed emancipazione. Il coro inneggia all’importanza dell’amicizia fra tutti i popoli. A questo proposito, D. Ikeda scrive:
“Le voci vibranti dell’Inno alla gioia di Beethoven trasportano l’ascoltatore verso un piano spirituale solenne. Poi vengono i versi: “Abbracciatevi, milioni di esseri! Questo bacio, al mondo intero!”. Quando è vestita di gioia, ogni discriminazione sparisce; con l’amicizia nel cuore, le persone sono legate tra loro come membri della famiglia umana. Le voci si uniscono in una celebrazione di vita, fino a quando la gioia raggiunge altezze quasi celestiali, man mano che il finale si avvicina al suo culmine”.
(Daisaku Ikeda in Europa, p. 93)
Il testo di Schiller è fondamentale in questa operazione. “Tutti gli uomini diventano fratelli” recita l’ode. Poi afferma: Gioia bevono tutti i viventi / dai seni della natura; / tutti i buoni, tutti i malvagi / seguono la sua traccia di rose!” Ma dal punto di vista del Buddismo, che tipo di gioia è questa, che permette a tutti le persone di sentirsi felici insieme agli altri e a proprio agio? È la Buddità, uno stato vitale di felicità assoluta, che non si fa influenzare dagli eventi esterni. Quando emerge da dentro di noi la Buddità, infatti, ci sentiamo in armonia con gli altri e con l’universo, grati del fatto stesso di esseri vivi.
Insita in tutte le persone, senza distinzione di sesso, di genere, di estrazione sociale o di divisioni morali fra buoni e cattivi (come indica lo stesso testo di Schiller!), per il Buddismo di Nichiren la Buddità può essere risvegliata da dentro di noi attraverso la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo. A questo proposito sono interessanti i versi: Chi s’è conquistata una dolce compagna / mescoli nella folla il suo giubilo! / Sì, chi anche un’anima sola / possa dir sua sul globo terrestre! / E chi non l’ha mai potuto, s’allontani / in lacrime da questo sodalizio. Qual è qui il significato delle parole di Schiller riprese da Beethoven? Innanzitutto il poeta riconosce metaforicamente l’importanza dei legami cuore a cuore fra le persone come elemento imprescindibile per un’esistenza gioiosa. Come scrive Nichiren: “Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. […] Sforzati di accumulare i tesori del cuore!” (RSND, 1, 755) Non solo chi non conosce l’amore per gli altri non può entrare nella marcia trionfale dell’umanità verso la gioia e la libertà, ma soprattutto chi non apprezza e ama la propria vita, non riconoscendo la propria natura di Budda. Come scrive sempre Nichiren infatti: “Tuttavia, se reciti e credi in Myoho-renge-kyo, ma pensi che la Legge sia al di fuori di te, stai abbracciando non la Legge Mistica, ma un insegnamento inferiore. […] Perciò, quando invochi myoho e reciti renge devi sforzarti di credere profondamente che Myoho-renge-kyo è la tua vita stessa” (RSND, 1, 3). Riprendendo la massima kantiana la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me, l’Ode alla gioia insiste sul fatto che, quando gli uomini, pur mantenendo la propria individualità e personalità, superano il loro ego, stringendosi in una rete di compassione e di sostegno reciproco, quando guardano il cielo stellato sopra di loro, non possono non riscoprire la dignità e l’eternità della vita, comprendendo di essere parte di un universo più grande, misterioso e compassionevole: provano un forte debito di gratitudine e si sentono di fatto un tutt’uno con la Legge Mistica, il principio che regola l’universo per il Buddismo di Nichiren basato sul rapporto di causa-effetto. Le persone diventano così consapevoli della loro nobile, unica e insostituibile missione, come recita L’Ode testualmente: “seguite, fratelli, il vostro cammino / gioiosi come un eroe verso la vittoria”.
UNA GIOIA CREATIVA E CORAGGIOSA
La domanda di partenza della sinfonia su come si debba vivere la vita e su quale sia il suo significato trova la risposta nel vivere con gioia nonostante e dentro le difficoltà. Beethoven ci incoraggia ad affrontare le montagne che abbiamo davanti, a seguire la strada più difficile con atteggiamento ottimistico e pieno di speranza, aprendoci agli altri. Come dice D. Ikeda:
“Se intendete intraprendere una sfida, fatelo con un atteggiamento brillante e positivo, altrimenti non vi divertirete. […] L’importante è sfidarsi con gioia, perché chi avanza con gioia accumula fortuna“.
(D. Ikeda, Cos’è la rivoluzione umana, p. 66)
Infatti, se trasformiamo, attraverso la recitazione di Nam Myoho Renge Kyo e la nostra decisione, il pensiero della nostra mente da negativo e catastrofista a positivo, coraggioso e creativo, questa azione ricade poi sul nostro ambiente traducendosi in grande forza vitale, saggezza e buona fortuna: tutto si muove nella direzione più giusta per le nostre vite. La Nona pone la gioia, la gratitudine, la compassione e la pace alla base di un nuovo modo di vivere pienamente umano, di cui D. Ikeda dà una chiara spiegazione.
“Dobbiamo fare in modo che […] il mondo di Buddità […] risplenda in noi. Allora le illusioni e i desideri si trasformano in illuminazione e qualsiasi cosa ci capiti fa da carburante per la felicità. Aprirsi alla gioia […] significa far sbocciare il loto meraviglioso, che è la natura intrinseca della mente (RSND, 2, 622) con allegria e gratitudine. Chi riesce a provare gioia, chi si sente grato, vede moltiplicarsi questi sentimenti in un effetto a valanga, perché è così che funziona il cuore”.
(BS, 222, 40)
L’esempio forse più grande di cosa voglia dire affrontare le avversità con gioia alla luce dei principi buddisti viene direttamente da Nichiren, Dopo aver proclamato Nam-myoho-renge-kyo, il potere imperiale lo condannò a morte. Quando i soldati lo scortarono alla spiaggia di Tatsunokuchi, dove sarebbe stato decapitato, Nichiren realizzò di aver concretizzato con la propria vita quanto era stato esposto e predetto nel Sutra del Loto: capì che stava dando veramente la propria vita per il bene della Legge Mistica e per la felicità delle persone. Nel suo cuore sentì allora sgorgare una gioia indescrivibile e infinita. I soldati furono increduli. Come poteva essere così determinato e gioioso un condannato a morte? Nel momento esatto in cui il boia con la spada impugnata stava per decapitarlo, l’universo rispose a quella determinazione gioiosa di Nichiren: una cometa apparve in cielo illuminando a giorno la spiaggia notturna di Tatsunokuchi. La condanna a morte fu sospesa. Proprio come scrive Nichiren: “Quanto più grandi saranno le difficoltà che incontrerà, tanto più grande la gioia che egli proverà grazie alla sua forte fede” (RSND, 1, 29).
Qual è allora, in ultima analisi, l’autentico significato della gioia? D. Ikeda scrive:
“Gioia significa gioire insieme agli altri” e “gioia è condividere saggezza e compassione con gli altri”. La gioia è qualcosa che si condivide con gli altri: chi si preoccupa solo della propria felicità è un egoista; chi dice di preoccuparsi solo della felicità altrui è un ipocrita: la vera felicità consiste nel diventare felici insieme agli altri. Toda diceva: “Essere felici da soli non sarebbe difficile. Ma la base della fede è aiutare gli altri a diventare felici”. Come dice il Daishonin, questa felicità è fatta di saggezza e compassione, è la vita del Budda […]: “Quando Nichiren e i suoi discepoli recitano Nam-myoho-renge-kyo, sono sicuri di diventare Budda dotati dei tre corpi: questa è la gioia”. Questa è “la più grande di tutte le gioie”.
(SSDL, vol. 3, 279)