REPORT COP27 – Quando il cambiamento diventa possibile

  • Autore dell'articolo: Chiara De Paoli
Con questo nuovo articolo di Buddismo oggi, intervistiamo Chiara De Paoli, che ha partecipato, in qualità di rappresentante della SGI, alla recente COP27 tenutasi a Sharm el-Sheik a novembre. Scopriremo la natura dei principali accordi che sono stati raggiunti. Rifletteremo su quale sia il significato di un tale storico evento dalla prospettiva del Buddismo di Nichiren Daishonin.
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Redazione: Puoi raccontarci cosa sia la COP?

Chiara: Ad oggi, sono quasi tre decenni che l’ONU riunisce su base annuale tutti i paesi del mondo per vertici globali sul clima, chiamati appunto COP o “Conferenza delle Parti”. Da allora, il cambiamento climatico è passato dall’essere una questione marginale nell’agenda politica degli Stati a diventare una priorità globale, che mette in crisi l’esistenza stessa del nostro pianeta. Comprendiamo allora il ruolo cruciale delle Nazioni Unite, che – come spesso ci ricorda Daisaku Ikeda, presidente della SGI – sono l’unico spazio in cui i paesi si incontrano e sono chiamati a rispondere ai cittadini e all’intera comunità internazionale sulla propria condotta e le proprie politiche nazionali. 

R: Quali sono stati i principali successi di questo evento?

C: Tra i maggiori risultati di questa COP vi è stato, a sorpresa, un accordo storico su quel filone chiamato Loss and Damage. Letteralmente, stiamo parlando delle perdite e dei danni provocati dal riscaldamento globale di origine umana. Questo tema di “perdite e danni” è da sempre uno dei più dibattuti tra il Nord e il Sud del mondo. Da anni, la rivendicazione dei paesi del Sud globale è l’istituzione di un fondo economico che vada a compensare i paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Storicamente, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono sempre opposti allo stanziamento di questo fondo, temendo che una concessione così generalizzata potesse aprire la strada a richieste di risarcimento miliardarie. Inaspettatamente, per la prima volta nella storia, è stato istituito questo fondo proprio alla COP27. Sembrava davvero impossibile riuscirci. Sicuramente tanto ha pesato il ruolo svolto dalla società civile, in particolare dalle donne, dai piccoli paesi, dai giovani che da anni si mobilitano per ricordarci come il dibattito sul clima non sia mai un dibattito neutro, puramente scientifico o ambientalista, ma soprattutto un dibattito politico: strettamente legato al riconoscimento dei diritti umani di chi, pur avendo contribuito poco o niente a provocare i danni del cambiamento climatico, è più vulnerabile ai suoi effetti devastanti. Ad ogni modo, l’istituzione di questo fondo alla COP27 rappresenta una storica ammissione di responsabilità da parte degli Stati più ricchi, cosa che non era mai avvenuta in passato, che di fatto li obbligherà ad assumere degli impegni vincolanti: una grandissima vittoria che non sarebbe mai stata possibile senza l’impegno dal basso di tante persone.

R: Puoi raccontarci qual è stato l’impegno della SGI durante la COP e che cosa hai seguito nello specifico?

C: Come delegazione della Soka Gakkai Internazionale (SGI), ci siamo impegnati in tavoli interreligiosi, in diverse conferenze stampa e come relatori a vari eventi, tra cui uno direttamente organizzato dalla SGI UK sul ruolo dei giovani. In generale penso che, anche all’interno di questi contesti, stia diventando sempre più chiaro, riconosciuto e riconoscibile come la fede in una religione possa costituire un valore aggiunto, una fonte di motivazione primaria dalla quale partire per impegnarsi nella difesa delle persone e del pianeta.

A livello personale, ho seguito per il secondo anno i negoziati su un filone molto caro alla SGI chiamato ACE, acronimo di Action for Climate Empowerment, che ha lo scopo di sottolineare come il dibattito sul cambiamento climatico sia direttamente collegato ai diritti umani, all’istruzione, all’accesso all’informazione a una partecipazione significativa dei cittadini ai processi decisionali ad ogni livello (locale, nazionale, internazionale). Se l’anno scorso il negoziato su ACE si era concluso con l’approvazione di un trattato che non riconosceva nel suo linguaggio questi diritti dei cittadini come diritti umani (quindi il diritto delle persone a partecipare ed essere correttamente informate sul cambiamento climatico veniva un po’ sancito come beneficenza, quasi come un favore dei loro leader politici), quest’anno il Piano di Azione approvato contiene, invece, questo nuovo linguaggio sui diritti. È una vittoria importante.

R: Eventi di questa portata sono spesso molto criticati e sembra che la gente comune non possa fare la differenza. Come possiamo ribaltare questa visione che depotenzia le persone?

C: Nella vittoria appena citata su ACE, ad esempio, la società civile ha fatto davvero la differenza e ho visto come il successo sia stato davvero possibile solo grazie all’unità e alla totale assenza di competizione tra le varie organizzazioni presenti. In un momento cruciale nelle negoziazioni, in cui sembrava impossibile trovare un accordo che proteggesse i diritti umani, un gruppo di giovani attivisti ha dialogato con pazienza, uno ad uno con i delegati dei loro rispettivi paesi, per spronarli ad intervenire. Nonostante ciò, pochi istanti prima della chiusura del negoziato, una coalizione di Paesi stava bloccando nuovamente il linguaggio sui diritti umani. A quel punto, il Segretariato delle Nazioni Unite ha proposto un compromesso accettabile che stava però lasciando un po’ tutti con l’amaro in bocca. A pochi secondi dalla fine, inaspettatamente e grazie anche all’intervento determinato delle delegate con cui i giovani avevano creato un legame, la stessa coalizione fino a quel momento contraria al linguaggio sui diritti ha proposto a sorpresa una soluzione ancora migliore di quella a cui fino a pochi istanti prima si stava opponendo.

Grazie a questa esperienza mi sono ricordata ancora una volta come la costruzione di una vera unità — non un’unità formale, ma quella profonda di cui parla il Buddismo — possa concretamente ribaltare i pronostici, nella nostra organizzazione come ad ogni livello della società. E in questo il nostro ruolo di praticanti buddisti è cruciale. Lo è nella nostra capacità di incoraggiare cuore a cuore le persone a tornare sempre al punto di origine della loro motivazione interiore, soprattutto nei momenti di stanchezza in cui queste situazioni diventano davvero una battaglia di stato vitale.

R: Qual è stato dunque il ruolo dei giovani alla COP27?

C: Tanti attivisti per il clima sono giovani (in particolare giovani donne), e alle COP è molto presente il dibattito sull’inclusione dei giovani nei processi decisionali. Spesso l’ho trovato un dibattito un po’ formale e astratto, di cui non capivo fino in fondo il valore. Ma grazie allo studio della proposta per la riforma delle Nazioni Unite di Daisaku Ikeda del 2006 ho approfondito molto la mia comprensione su questo argomento. Vi segnalo un passaggio in particolare, perché credo sia applicabile non solo al dibattito sul clima, ma anche ad ogni altro livello: 

Credo che l’ONU (…) debba fare della promozione dell’impegno attivo dei giovani l’obiettivo centrale della sua nuova partenza. (…) Si dice che circa la metà dei Paesi che escono da un conflitto vi si ritrovino nuovamente coinvolti entro cinque anni. Nelle società che hanno vissuto conflitti e la tragedia di cicli di violenza ricorrenti, è estremamente difficile per i membri della generazione al potere districarsi dal ciclo di odio e violenza. È quindi importante concentrarsi sulla prossima generazione, che è meno legata al passato, e trovare il modo di consentire ai giovani di esplorare nuove idee, strade e approcci per stabilire la pace e la prosperità condivisa. La stessa formula si applica alle sfide della riduzione della povertà, del disarmo e del degrado ambientale. Si otterranno progressi significativi solo quando i semi del cambiamento piantati nei cuori della prossima generazione arriveranno a compimento attraverso sforzi persistenti e instancabili nei campi dell’educazione e della sensibilizzazione.

Sono molto grata per aver potuto sperimentare, ancora una volta, come il nostro ruolo di persone capaci di trasformare costantemente la disillusione in speranza e la speranza in determinazione sia in grado veramente di portare — dal locale al globale — quel cambiamento duraturo di cui l’umanità ha tanto bisogno.