Pratica per sé e Pratica per gli altri: i due pilastri del Buddismo

  • Autore dell'articolo: Chiara Stefanacci
Come supportare e sostenere chi ci circonda senza dimenticarsi di se stessi
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Uno dei primi princìpi buddisti che si incontrano nella Soka Gakkai è quello della pratica per sé e della pratica per gli altri. Si tratta di uno dei fondamenti della pratica quotidiana del Buddismo di Nichiren Daishonin che chiarisce l’importanza di dedicarsi agli altri, senza mai dimenticarsi di se stessi.

Che cosa significa?

Con pratica per sé si intende la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo e la lettura quotidiana dei due capitoli del sutra del loto, Espedienti e Durata della vita del Tathagata. La pratica per gli altri, invece, consiste nell’insegnare alle altre persone la Legge mistica e sostenerle attraverso la fede.

Questi due termini, pratica per sé e pratica per gli altri, sono in realtà indivisibili: infatti, entrambi si nutrono l’uno dell’altro e si alimentano a vicenda in un ciclo costante. Per fare un esempio, nel momento in cui sperimentiamo una felicità pura e senza limiti, in grado di spazzare via qualunque nube oscura che fino a un attimo prima avvolgeva il nostro cuore, sorge naturale il desiderio che anche le persone intorno a noi sperimentino quella stessa felicità. Vogliamo condividerla, parlarne, vedere chi ci circonda influenzato dallo stesso sentimento. E quando quella stessa felicità riusciamo a sperimentarla anche nei momenti più difficili, ecco che il desiderio che tutti siano felici si traduce nella vera pratica per gli altri: l’impegno a far sì, grazie alla nostra trasformazione interiore, che tutti gli esseri umani siano felici, che tutto il mondo abbia questo unico scopo.

Pratica per sé

Abbiamo detto che la pratica per sé si basa sulla recitazione di Nam myoho renge kyo e sulla lettura dei due capitoli del sutra del loto, Espedienti e Durata della vita del Tathagata.
Ma, a questo punto, sorgono diverse domande: Per cosa si dovrebbe praticare? Quanto lo si dovrebbe fare? Perché? Che cosa accade quando mettiamo in moto questo processo spirituale?

La quantità di tempo da dedicare alla pratica quotidiana è una decisione personale che può variare a seconda di diversi fattori, come le circostanze, il nostro stato d’animo o ciò che ci spinge a praticare il Buddismo in quel dato momento. Infatti, qualunque nostro desiderio o pensiero, positivo o negativo, può diventare un espediente per praticare il Buddismo. Non esistono desideri giusti o sbagliati. A prescindere da quale sia il nostro punto di partenza, quando iniziamo a recitare Nam myoho renge kyo, il nostro stato vitale si eleva inevitabilmente, e anche se mentre lo stiamo facendo non ci sentiamo sicuri, stiamo, in ogni caso, attingendo alla nostra natura di Budda, innata dentro di noi.

Quello che accade in seguito è che qualunque problema ci stia facendo soffrire in quel momento, non scomparirà come per magia, ma avrà, nella nostra vita, un peso differente. Infatti, col rafforzarsi della nostra condizione vitale interiore, saremo capaci di vedere i problemi e le preoccupazioni non più come ostacoli insormontabili, ma come occasioni di crescita. I nostri meccanismi distruttivi saranno illuminati dalla saggezza, i rapporti con le altre persone dalla compassione, le situazioni più difficili e dolorose conosceranno il nostro coraggio.

Dalla ripetizione quotidiana di questo processo ne emergono con sempre più naturalezza caratteristiche quali determinazione, forza, fiducia. In sostanza, emergono le qualità del Budda, grazie alle quali mettiamo in moto il processo di rivoluzione umana. È questo lo scopo ultimo della pratica per sé: affrontare ogni situazione partendo prima da noi stessi, migliorando giorno dopo giorno e affinando le nostre qualità uniche di esseri umani, scoprendo, infine, che non esiste felicità in qualche luogo lontano da dove ci troviamo noi adesso. È proprio questa la felicità.
Da questo tipo di allenamento sincero, si passa alla pratica per gli altri.

Pratica per gli altri

Attraverso la pratica per sé, possiamo sperimentare una felicità vera e sincera, che trascende le circostanze e che ci permette di proseguire nel cammino che abbiamo scelto.
La pratica per gli altri si riferisce, invece, a un concetto molto semplice, eppure estremamente difficile da applicare: non esiste felicità per noi stessi senza felicità per le altre persone.

Spesso tale concetto viene collegato all’altruismo, e in parte è così. Ma più profondamente, la pratica per gli altri definisce quel momento in cui, avendo sperimentato noi per primi la felicità, il nostro stato vitale si espande naturalmente al di là dei nostri problemi personali, dei nostri obiettivi, di noi stessi, arrivando a desiderare concretamente la felicità di tutte le persone che ci circondano, partendo dalle nostre famiglie, amici, compagni di studi o colleghi di lavoro. In sostanza, la pratica per gli altri è dominata dalla compassione: il desiderio profondo di aiutare le altre persone a vincere sulle loro sofferenze e debolezze e a sperimentare quella felicità pura che non dipende dal mutare degli eventi.

Su larga scala, pratica per gli altri si riferisce alla pace e alla felicità di tutti gli esseri viventi, il che può sembrare davvero impossibile da realizzare ma, dalla prospettiva buddista, la pace di tutti gli esseri viventi non è altro che lo sforzo cumulativo di tanti individui che si impegnano costantemente nel loro personale processo di rivoluzione umana e aiutano gli altri a fare lo stesso. Infatti, la pratica per gli altri è mobilitata dalla compassione, e consiste di tutte le azioni compiute per condurre un’altra persona verso la sua illuminazione, verso la felicità.

In definitiva

Siamo spesso portati a dividere il tempo che dedichiamo agli altri da quello che riserviamo a noi stessi.
Siamo anche portati a pensare che esistano individui buoni o cattivi, coraggiosi o codardi. Che le persone si dividano in diverse categorie a seconda del sentimento da cui sono dominate e che, quindi, la compassione sia innata in alcuni, e assente in altri.

Le persone sono come fiumi: l’acqua è in tutti una sola, e dappertutto è la stessa; ma ciascun fiume può essere ora stretto e rapido, ora largo e tranquillo, ora puro e freddo, ora torbido e tiepido. […] Ciascuno reca in sé i germi di tutte le tendenze umane, e a volte ne manifesta alcune, a volte altre, e spesso avviene che agisca come fosse tutt’altro da quello che è, pur restando sempre se stesso.

Lev Tolstoj, Resurrezione, LIX;

Il Buddismo spiega che, attraverso la recitazione di Nam myoho renge kyo e l’impegno nel realizzare la nostra rivoluzione umana, il desiderio di supportare le persone che ci circondano sorge naturalmente. Ognuno di noi possiede tutte le caratteristiche del Budda, compresa la compassione. Queste caratteristiche emergono quando una persona si sforza di migliorare ogni giorno, quando si sforza nella sua pratica per sé, attingendo da sentimenti che forse, fino a quel momento, non aveva mai sperimentato appieno, e scoprendo che si può essere felici così come si è. Allora, naturalmente accadrà che quella stessa persona desideri sostenere chi la circonda, e così facendo, senza nemmeno accorgersene, avrà messo in moto il ciclo di pratica per sé e pratica per gli altri.